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Diari, poesie, lettere, volantini, carte d'identità, ricette mediche, biglietti del tram, bracciali con la stella di David, menù di ristoranti, quaderni di scuola, disegni di bambini, dépliants pubblicitari, locandine di spettacoli, verbali di riunioni politiche, giornali clandestini, contabilità commerciale, statistiche demografiche: Ringelblum e i suoi compagni ebbero la lucidità di riconoscere in questo il lascito più prezioso che fosse dato ai morituri di trasmettere alla posterità. Dopo l'avvio delle deportazioni di massa verso Treblinka, infilarono migliaia di documenti in dodici contenitori metallici e li seppellirono di nascosto sotto le cantine di due edifici del ghetto, dove vennero ritrovati fra il 1946 e il 1950.
Da duemila anni in qua, i muri hanno rivestito una funzione decisiva nella storia del popolo ebraico: dall'inizio della Diaspora al ritorno nella Terra Promessa, dalla rovinosa distruzione del tempio di Gerusalemme alle misure di sicurezza dell'Israele di oggi, insomma dal Muro del Pianto al muro di Sharon, il destino delle comunità israelitiche è stato spesso quello di una separazione coatta dal mondo circostante. Ma nella tragedia di tale destino, il popolo ebraico ha trovato la forza per non vivere i muri soltanto come un limite: per viverli anche come una risorsa. Facendo degli spazi chiusi mondi aperti, e dei giorni contati giorni regalati. È stato così nella Varsavia stessa del 1940-43, dove gli ebrei reclusi nel ghetto e destinati allo sterminio riuscirono a cimentarsi con le arti della vita.
Uomini più o meno atletici si guadagnavano il pane pedalando, autisti di un mezzo di trasporto rudimentale eppure diffuso: il risciò. Donne più o meno fascinose percorrevano le strade da coquettes, in precario equilibrio su tacchi sorprendentemente alti. Musicisti di rango o di dozzina suonavano nei caffè, agli angoli delle vie, nei cortili delle case. La programmazione teatrale era intensa, in yiddish come in polacco, e capitava che gli spettacoli durassero tutta la notte per aggirare le regole del coprifuoco. Se costretti in casa, molti cittadini-prigionieri si tenevano occupati leggendo, giocando a scacchi, sfidandosi a carte (il bridge la faceva da padrone). Quanto al proverbiale humour ebraico, si tradusse addirittura nella circolazione, in forma manoscritta, di una Guida turistica del ghetto...
Agli ebrei di Varsavia capitava pure di innamorarsi: anche questo, in fondo, un modo per opporre resistenza morale all'orrore della Soluzione finale. Alla vigilia dell'insurrezione, rimanevano nel ghetto soprattutto giovani "single" che avevano appena perduto i genitori, i nonni, i fratelli più piccoli. Ragazzi e ragazze cui il destino aveva sottratto ogni cosa, salvo la voglia di resistere fino all'ultimo, e salvo il bisogno di amare ed essere amati. Studente di medicina, Marek Edelman era uno fra loro. Non avrebbe mai dimenticato certi idilli sbocciati nella Varsavia della morte. Li ha raccontati in conversazioni della vecchiaia, recentemente raccolte da Sellerio in un libro che va letto come il suo testamento, e che va assaporato fin dal titolo: C'era l'amore nel ghetto.
Barbara Engelking e Jacek Leociak, «The Warsaw ghetto. A guide to the perished city», Yale University Press, pagg. 902, $ 75,00.